Speeches and Statements

DISCORSO PRONUNCIATO DAL COMANDANTE IN CAPO FIDEL CASTRO RUZ PRESIDENTE DEI CONSIGLI DI STATO E DEI MINISTRI E PRESIDENTE DEL MOVIMENTO DEI PAESI NON ALLINEATI, AL XXXIV PERIODO DI SESSIONI DELL’ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE, NEW YORK, 12 OTTOBRE 1979.

Date: 

12/10/1979

Egregio Sig. Presidente,

 

Egregi rappresentanti della comunità mondiale,

 

Non sono venuto a parlare di Cuba. Non vengo a presentare in seno a questa Assemblea la denuncia delle aggressioni di cui è stato vittima il nostro piccolo ma degno paese per ben 20 anni. Non vengo nemmeno a ferire con aggettivi innecessari il vicino potente nella sua propria casa.

 

La VI Conferenza dei Capi di Stato e di Governo del Movimento dei Paesi Non Allineati ci ha incaricato di presentare presso le Nazioni Unite l’esito delle sue deliberazioni e gli atteggiamenti derivatisi.

 

Siamo in 95 i paesi di tutti i continenti, che rappresentiamo la stragrande maggioranza dell’umanità. Siamo uniti dalla determinazione di difendere la collaborazione tra i nostri paesi, il libero sviluppo nazionale e sociale, la sovranità, la sicurezza, l’uguaglianza e l’autodeterminazione. Siamo uniti nell’impegno di cambiare l’attuale sistema di relazioni internazionali, basato sull’ingiustizia, la disuguaglianza e l’oppressione. In politica internazionale, siamo un fattore globale autonomo.

 

Riunito all’Avana, il Movimento ha appena riaffermato i propri principi e confermato i propri obiettivi.

 

Noi, i Paesi Non Allineati, ribadiamo la necessità d’eliminare l’enorme disuguaglianza tra i paesi sviluppati ed i paesi in vie di sviluppo. Perciò, lottiamo per debellare la povertà, la malattia e l’analfabetismo che soffrono ancora centinaia di milioni di esseri umani. Aspiriamo ad un nuovo ordine mondiale basato sulla giustizia, l’equità e la pace, che sostituisca il sistema ingiusto e disuguale che prevale oggi, nel quale, secondo si proclamò nella Dichiarazione dell’Avana, "la ricchezza è ancora centrata tra le mani di alcune potenze le cui economie, fondate sullo spreco, si mantengono grazie allo sfruttamento dei lavoratori ed al trasferimento ed il saccheggio delle risorse naturali ed altre risorse dei popoli dell’Africa, l’America latina e l‘Asia ed altre regioni del mondo".

 

Tra gli argomenti da dibattere in questo periodo di sessione dell’Assemblea Generale la pace è al primo posto delle nostre preoccupazioni. La ricerca della pace è anche un’aspirazione del Movimento dei Paesi non Allineati, ciò che è stato esaminato alla VI Conferenza. Tuttavia la pace, per i nostri paesi, è indivisibile. Vogliamo una pace ugualmente vantaggiosa a tutti, vale a dire, ai grandi ed ai piccoli, ai potenti ed ai deboli, che abbracci tutti gli ambiti del mondo e che sopraggiunga tutti i cittadini.

 

I Paesi Non Allineate, dalla loro fondazione, ponderarono che i principi della coesistenza pacifica devono essere la pietra angolare delle relazioni internazionali, essi sono alla base del consolidamento della pace e della sicurezza internazionale, della riduzione della tensione e dell’espansione di questo processo a tutte le regioni del mondo ed a tutti le facce delle relazioni, e devono essere applicati universalmente nelle relazioni tra gli Stati. Ma nello stesso tempo, il VI Vertice ponderò che tali principi attinenti alla coesistenza pacifica contengono anche il diritto dei popoli sottomessi alla dominazione straniera e coloniale all’autodeterminazione, all’indipendenza, alla sovranità, all’integrità territoriale degli Stati, al diritto di ogni paese a mettere fine all’occupazione straniera, all’acquisizione dei territori con la forza ed a scegliere il loro sistema sociale, politico ed economico.

 

Solo così la coesistenza pacifica potrà essere alla base di tutte le relazioni internazionali.

 

Non ci si può negare. Esaminando la struttura del mondo contemporaneo si costata che tali diritti dei nostri popoli non sono ancora garantiti. Noi, i Paesi Non Allineati, sappiamo quali sono i nostri nemici storici, da dove vengono le minacce e come dobbiamo combatterle. Per tale motivo abbiamo deciso all’Avana di riaffermare che:

 

 

"La quintessenza della politica di non allineamento, secondo i principi originali e fondamentali, implica la lotta contro l’imperialismo, il colonialismo, il neocolonialismo, l’apartheid, il razzismo, incluso il sionismo e qualsiasi forma d’aggressione, occupazione dominazione, ingerenza oppure egemonie straniere, nonché la lotta contro le politiche delle grandi potenze o blocchi".

 

Così si capisce anche che la Dichiarazione dell’Avana abbinò la lotta per la pace “all’appoggio politico, morale e materiale ai movimenti di liberazione nazionale ed alla realizzazione di azioni comuni per far fuori la dominazione coloniale e la discriminazione razziale".

 

Noi, i Paesi Non Allineati, abbiamo sempre concesso una grande importanza alla possibilità ed alla necessità della distensione tra le grandi potenze. Così, la VI Conferenza accenna, con grande preoccupazione, la stagnazione verificatasi dopo il Vertice di Colombo nel processo di distensione, che continua ad essere limitato “sia nella sua portata sia geograficamente".

 

Partendo da questa ansia, i Paesi Non Allineati — che hanno fatto del disarmo e della denuclearizzazione uno degli obiettivi permanenti più importanti della loro lotta, iniziativa adottata durante la convocazione al X Periodo Straordinario di Sessioni dell’Assemblea Generale sul Disarmo— esaminarono nella loro Conferenza, gli esiti dei negoziati sulle arme nucleari strategiche e gli accordi SALT-II. Essi ritengono che tali accordi sono un momento importante nei negoziati tra le due principali potenze nucleari e che potrebbero agevolare la via per intraprendere negoziati più vasti mirati al raggiungimento del disarmo generale e della riduzione delle tensioni. Tuttavia, per i Paesi Non Allineati, tali negoziati sono soltanto una parte dei progressi verso la pace. Sebbene i negoziati tra le grandi potenze sono un elemento decisivo nel processo, i Paesi Non Allineati reiterarono ancora una volta che l’impegno per consolidare la distensione, estenderla all’intero mondo ed evitare la minaccia nucleare, l’accumulo di armi ed, infine, la guerra, spetta a tutti i popoli, i quali sono tenuti di partecipare e di esercitare la loro responsabilità.

 

 

Signor Presidente,

 

Partendo dalla concezione dell’universalità della pace, la necessità d’abbinare la ricerca della pace per tutti i paesi alla lotta per l’indipendenza nazionale, la piena sovranità e l’uguaglianza tra gli Stati, i Capi di Stato o di Governo riuniti alla VI Conferenza dell’Avana ci centriamo sui problemi più pressanti dell’Africa, l’Asia, l’America Latina ed altre regioni. Giova sottolineare che partiamo da un atteggiamento autonomo, estraneo a politiche emanate dalla contradizione tra le grandi potenze. Se malgrado questo approccio realistico e non impegnativo, l’esame degli eventi internazionali diventa un anatema contro i fautori dell’imperialismo e del colonialismo, allora esso sarà, senz’altro, il riflesso della realtà del mondo contemporaneo.

 

Così, esaminando la situazione che vive l’Africa, e tenuto conto dei progressi raggiunti nella lotta per l’emancipazione dai popoli africani, i Capi di Stato o di Governo segnalarono, come problema fondamentale della regione, la necessità di debellare del continente, specie, nell’Africa Meridionale, il colonialismo, il razzismo, la discriminazione razziale e l’apartheid.

 

Fu indispensabile sottolineare che le potenze colonialiste ed imperialiste proseguivano con le loro politiche aggressive allo scopo di perpetrare, ricuperare od allargare la loro dominazione e sfruttamento verso le nazioni africane.

 

Non è diversa la situazione dell’Africa. I Paesi Non Allineati non potevano non condannare gli attacchi a Mozambico, Zambia, Angola, Botswana, le minacce a Lesotho, i continuati tentativi di destabilizzazione in quella zona, il ruolo dei regimi razzisti di Rhodesia ed Africa del Sud. La necessità di raggiungere velocemente la completa liberazione di Zimbabwe e Namibia, non spetta solo ai Paesi Non Allineati o alle forze le più progressiste della nostra epoca, ma ormai fa parte degli accordi della comunità internazionale, tramite le Nazioni Unite, ed implica obblighi ineludibili la cui infrazione presuppone anche la necessità di una denuncia internazionale. Per tal motivo, qualora i Capi di Stato o di Governo adottarono nella Dichiarazione Finale di condannare - chiamandogli con i loro propri nome- un gruppo di paesi occidentali, ed in primo luogo gli Stati Uniti, a causa della loro collaborazione direttamente od indirettamente nel sostentamento dell’oppressione razzista e della criminale politica dell’Africa del Sud e che, d’altra parte, riconobbero il ruolo dei Paesi Non Allineati, delle Nazioni Unite, dell’Organizzazione dell’Unità Africana, dei paesi socialisti e dei paesi scandinavi e di altre forze democratiche e progressiste in appoggio alla lotta dei popoli dell’Africa, esso non c’entra per niente con l’ideologia, è, semplicemente, l’espressione fedele della realtà obiettiva. Condannare l’Africa del Sud senza menzionare coloro che rendono possibile la loro criminale politica sarebbe stato incomprensibile.

 

Dal VI Vertice nasce, con più forza ed urgenza, il bisogno di porre fine ad una situazione che coinvolge non soltanto il diritto dei popoli di Zimbabwe e di Namibia alla loro indipendenza e l’esigenza improcrastinabile che gli uomini e le donne nere sudafricane raggiungano uno status in cui vengano ritenuti esseri umani uguali e rispettati, ma anche che vengano garantite le condizioni di rispetto e di pace per tutti i paesi della regione.

 

L’appoggio ininterrotto ai movimenti di liberazione nazionale, il Fronte Patriotico e la SWAPO, fu una decisione adottata all’unanimità, tal che era previsto. E non si tratta — siamo chiari— di esprimere una preferenza unilaterale per le soluzioni tramite la lotta armata. Certamente la Conferenza si congratulò con il popolo di Namibia e la SWAPO - la sua autentica ed unica rappresentazione- per avere intensificato e progredito nella lotta armata ingaggiata, e chiese l’appoggio totale ed efficace a questa forma di lotta. Ma questo si deve al fatto che i razzisti sudafricani chiusero tutte le vie al vero negoziato ed che i tentativi di soluzioni patteggiate furono soltanto mere stratagemmi.

 

L’atteggiamento di fronte alle decisioni del Commonwealth nei raduni tenutisi a Lusaka lo scorso mese d’agosto, mirati a convocare una conferenza dal Governo britannico come autorità in Rhodesia del Sud, per dibattere sui problemi di Zimbabwe, confermò che i Paesi Non Allineati non sono contrari alle soluzioni che si possono raggiungere diversamente dalla lotta armata, sempre che da esse emani un autentico governo della maggioranza e che l’indipendenza così raggiunta soddisfi i popoli belligeranti, in ottemperanza delle risoluzioni degli organismo tale l’OUA, le Nazioni Unite ed i nostri Paesi Non Allineati.

 

 

Signor Presidente,

 

Il VI Vertice deplorò ancora una volta la non applicazione sul Sahara Occidentale della Risoluzione 1514 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla concessione dell’indipendenza ai paesi e popoli coloniali. Giova ricordare che le decisioni dei Paesi Non Allineati e le Risoluzioni delle Nazioni Unite, specie quella 3331 dell’Assemblea Generale, confermarono il diritto inalienabile del popolo del Sahara Occidentale all’autodeterminazione ed all’indipendenza. A questo punto Cuba si sente responsabile per essere stato membro della Commissione delle Nazioni Unite che esaminò la questione del Sahara Occidentale, ciò che consentì alla nostra rappresentanza di verificare la decisione del popolo sahariano in favore dell’autodeterminazione e dell’indipendenza. Ribadiamo in questa sede che l’atteggiamento dei Paesi Non Allineati non è un atteggiamento di antagonismo verso un qualsiasi paese. Nel salutare l’accordo tra la Repubblica Mauritana ed il Fronte POLISARIO e la decisione mauritana di ritirare le sue forze dal territorio del Sahara Occidentale, e nel deplorare l’estensione dell’occupazione armata del Marrocco alla parte meridionale del Sahara Occidentale, gestita in precedenza da Mauritania, si evidenzia l’applicazione dei nostri principi e degli accordi delle Nazioni Unite. Così, la Conferenza dichiarò la propria speranza che il comitato ad hoc dell’OUA, eletto durante la XVI Riunione al Vertice dell’Organizzazione Africana, avrebbe garantito al popolo del Sahara l’esercizio del suo diritto all’autodeterminazione ed all’indipendenza al più presto possibile.

 

Lo stesso principio ed atteggiamento determinarono gli accordi sull’isola di Mayotte e le isole dell’arcipelago malgascio ed il loro reinserimento rispettivamente alle Comore e Madagascar.

 

Signor Presidente,

 

La questione dell’Oriente Medio è, senz’altro, una delle situazioni più allarmanti all’epoca contemporanea. Il VI Vertice l’esaminò nei suoi due volti.

 

Da una parte, la Conferenza riaffermò che la determinazione d’Israele di continuare la sua politica di aggressione, espansionismo ed insediamento coloniale nei territori coloniali, con l’appoggio degli Stati Uniti, è una grave minaccia alla pace ed alla sicurezza mondiali.

 

Ugualmente, la Conferenza esaminò il problema dal punto di vista dei diritti dei paesi arabi e della questione palestinese.

 

Per noi, i Paesi Non Allineati, la questione della Palestina è il midollo del problema dell’Oriente Medio, cioè, fa parte dell’tutto quindi è impossibile risolverlo separatamente.

 

La base della pace nella regione comincia con il ritiro complessivo ed incondizionato dell’Israele dai territori arabi occupati e presuppone per il popolo palestinese la restituzione di tutti i territori occupati ed il recupero dei suoi diritti nazionali inalienabili, incluso il diritto al rientro alla sua patria, all’autodeterminazione ed allo stabilimento di uno Stato indipendente nella Palestina, nei limiti della Risoluzione 3236 dell’Assemblea Generale. Quanto sopra implica l’illegalità e la nullità delle misure adottate dall’Israele nei territori palestinesi ed arabi occupati, nonché dello stabilimento delle colonie od insediamenti nei territori palestinesi ed arabi, il cui smantellamento immediato è un’esigenza per trovare una soluzione al problema.

 

Come dissi nel mio discorso al VI Vertice "...non siamo dei fanatici. Il movimento rivoluzionario si formò nell’odio alla discriminazione razziale ed ai programmi di qualsiasi tipo, dal più profondo delle nostre anime, rifiutammo con tutte le nostre forze la spietata persecuzione ed il genocidio scatenato dal razzismo contro il popolo ebraico. Tuttavia non c’è niente di più simile alla nostra storia contemporanea che lo sgombramento, la persecuzione ed il genocidio che porta avanti oggi l’imperialismo ed il sionismo contro il popolo palestinese. Privati dalle loro terre, cacciati dalla loro patria, dispersi per il mondo, perseguitati ed assassinati, gli eroici palestinesi sono un esempio impressionante d’abnegazione e patriottismo, e sono il simbolo vivente del crimine più grande della nostra epoca" (APPLAUSI).

 

Qualcuno si sarebbe meravigliato che la Conferenza fosse costretta di segnalare - per motivi emanati non da pregiudizi politici ma dall’analisi obiettivo dei fatti- che la politica degli Stati Uniti ha un ruolo fondamentale nell’arginare lo stabilimento di una pace giusta e totale nella regione nell’allinearsi con l’Israele, appoggiarlo e lavorare per raggiungere soluzioni parziali favorevoli agli obiettivi sionisti e garantire i frutti dell’aggressioni israeliana a scapito del popolo arabo della Palestina e dell’intera nazione araba?

 

I fatti – e non solo i fatti- portarono la Conferenza a condannare la politica ed i maneggi statunitensi nella regione.

 

Allorché i Capi di Stato o di Governo arrivarono al consenso con cui condannarono gli accordi di Camp David ed il Trattato Egitto-Israele nel marzo 1979, dietro tali formulazioni c’erano lunghe ore d’accurato esame e proficui scambi che consentirono alla Conferenza di valutare tali trattati, non solo come un abbandono totale della causa dei paesi arabi ma anche un atto di complicità con l’occupazione continuata dei territori arabi. Gli appellativi sono duri ma veri e giusti. Non è il popolo dell’Egitto che è sottoposto a giudizio dagli organi del Movimento. Il popolo egiziano ha il rispetto di ognuno dei nostri paesi e la solidarietà di tutti i nostri popoli. Le stesse voci che si alzarono per denunciare gli accordi di Camp David ed il Trattato egiziano-israeliano, lodarono Gamal Abdel Nasser, fondatore del Movimento e rappresentante delle tradizioni combattive della nazione araba. Nessuno tralasciò né tralascerà il ruolo storico dell’Egitto nella cultura e lo sviluppo arabo, né i suoi meriti come fondatore e propugnatore dei Paesi Non Allineati.

Ugualmente, i problemi attinenti il Sud-Est Asiatico attirarono l’attenzione della Conferenza. I conflitti in aumento e le tensioni sono una minaccia alla pace che bisogna evitare.

 

Preoccupazioni analoghe sono state accennate al VI Vertice in merito alla situazione dell’Oceano Indiano. La Dichiarazione - adottata otto anni fa dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite- di questa area come zona di pace, non è riuscita nei suoi obiettivi. La presenza militare non si limita in questa zona, anzi, aumenta. Le basi militari raggiungono adesso l’Africa del Sud e servono inoltre a sorvegliare i movimenti africani di liberazione. Le pourparler tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica sono in sospeso, malgrado gli accordi recenti tra ambedue i paesi per discutere la loro ripresa. Da tutto ciò nacque l’invito del VI Vertice a tutti gli Stati interessati, ad agire effettivamente per il raggiungimento degli obiettivi della Dichiarazione dell’Oceano Indiano come zona di pace.

 

La Sesta Conferenza esaminò altri problemi d’interesse regionale e mondiale, tra cui la sicurezza e la cooperazione in Europa; il problema del Mediterraneo, le tensioni, attualmente in aumento a causa della politica aggressiva dell’Israele e dell’appoggio prestato dalle potenze imperialistiche.

 

Esaminò la situazione del Cipro, occupato ancora parzialmente dalle truppe straniere, e della Corea, divisa ancora, malgrado i desideri del popolo coreano di raggiungere la riunificazione pacifica della patria, ciò che portò i Paesi Non Allineati a riaffermare ed ampliare risoluzioni solidali dirette alla realizzazione delle aspirazioni di ambedue i popoli.

 

Sarebbe impossibile affrontare tutte le decisioni politiche del VI Vertice. Farlo ci impedirebbe d’affrontare uno degli aspetti fondamentali del nostro VI Vertice: la proiezione economica, il clamore dei popoli in vie di sviluppo, stufi ormai del loro ritardo e delle sue conseguenze. Cuba, come paese sede, consegnerà a tutti i paesi membri della comunità internazionale la Dichiarazione Finale e le risoluzioni supplementari della Conferenza. Ma che mi sia permesso, prima di parlare del modo in cui i Paesi Non Allineati vedono la situazione economica mondiale, quali sono le loro domande e quali le loro speranze, prendere alcuni istanti per farvi conoscere l’approccio della Dichiarazione Finale nei confronti delle questioni latinoamericane attuali.

 

Il fatto di tenere il Sesto Vertice in un paese latinoamericano consentì ai Capi di Stato o di Governo riuniti in quella sede, ricordare che i popoli di quella regione avviarono i loro sforzi per l’indipendenza nei primi anni del XIX secolo. Ricordarono ugualmente che, come sostiene la Dichiarazione: "America Latina era una delle regioni del mondo che storicamente aveva subito di più l’aggressione dell’imperialismo, del colonialismo e del neocolonialismo degli Stati Uniti e dell’Europa". I partecipanti alla Conferenza sottolinearono che ci sono ancora rimanenze del colonialismo, del neocolonialismo e dell’oppressione nazionale in quella terra in lotta. La Conferenza si pronunciò, quindi, per il debellamento del colonialismo in tutte le sue forme e manifestazioni, condannò l’esistenza delle basi militari nell’America Latina e nei Caraibi, come ad esempio a Cuba e Porto Rico, ed esigé, ancora una volta, che la parte del territorio occupata da tali basi contro la volontà dei loro popoli, fosse restituita dal Governo degli Stati Uniti e le altre potenze coloniali.

 

L’esperienza di altre aree fece che i Capi di Stato o di Governo rifiutassero e condannassero il tentativo di creare nei Caraibi la cosiddetta "Forza di Sicurezza", meccanismo neocoloniale incompatibile con la sovranità, la pace e la sicurezza dei paesi.

 

Nel chiedere la restituzione alla Repubblica Argentina delle Isole Falkland, nel reiterare il loro appoggio al diritto inalienabile del popolo di Belize alla sua autodeterminazione, indipendenza e integrità territoriale, la Conferenza confermò ancora una volta quello che la sua Dichiarazione definì come la quintessenza del non allineamento. Costatò con soddisfazione che, dal 1 ottobre, saranno in vigore i trattati sul Canale del Panama, sottoscritti tra la Repubblica del Panama e gli Stati Uniti, appoggiò pienamente i suddetti trattati, esigé che essi fossero rispettati nella lettera e lo spirito, e chiese a tutti gli Stati del mondo d’aderire il protocollo del trattato attinente alla neutralità permanente del Canale del Panama.

 

I Capi di Stato o di Governo, nonostante le sollecitazioni, le minace e le lusinghe, nonostante la testardaggine del governo americano nell’esigere che i problemi del Porto Rico fossero ritenuti come problemi interni degli Stati Uniti, reiterarono la loro solidarietà nei confronti della lotta del popolo del Porto Rico e del suo diritto inalienabile all’autodeterminazione, l’indipendenza e l’integrità territoriale, ed invitarono il Governo degli Stati Uniti d’America ad astenersi di qualsiasi maneggio politico o repressivo mirato a perpetuare la situazione coloniale nel summenzionato paese (APPLAUSI).

 

Ecco il più degno omaggio alle tradizioni liberatrici dell’America Latina ed all’eroico popolo portoricano, che in questi giorni rievoca il "Grido di Lares" con il quale, ben circa 100 anni fa, espresse la sua indomabile vocazione alla libertà.

 

Nel parlare della realtà latinoamericana, i Capi di Stato o di Governo, che avevano ormai esaminato l’importanza del processo di liberazione nell’Iran, non potevano non riferirsi alla svolta rivoluzionaria in Granada e alla straordinaria vittoria del popolo del Nicaragua e della sua avanguardia, il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (APPLAUSI), e non evidenziare l’enorme significato storico per i popoli dell’America Latina e del mondo di tale fatto. Sottolinearono altresì i Capi di Stato o di Governo qualcosa che viene a costituire un fatto nuovo nei rapporti latinoamericani e che serve da esempio per altre regioni del mondo: la forma solidale e di comune accordo dell’azione dei governi di Panama, Costa Rica e Messico, e dei paesi del Patto Andino: Bolivia, Colombia, Ecuador, Peru e Venezuela, per la giusta soluzione del problema nicaraguense, nonché la solidarietà fornita da Cuba alla causa del suddetto popolo.

 

Ammetto che tali approcci sull’America Latina avrebbero bastato al popolo cubano per giustificare tutti gli sforzi e l’impegno di centinaia di uomini e di donne nel nostro paese perché Cuba accogliesse degnamente i paesi fratelli del Movimento Non Allineato nel Vertice dell’Avana. Però, ci fu ancora di più per Cuba. Qualcosa che vogliamo ringraziare in questa sede, in questa tribuna delle Nazioni Unite, nel nome del nostro popolo. All’Avana, il popolo cubano ricevé tutto l’appoggio al suo diritto a scegliere il sistema politico e sociale che aveva deciso, nella sua esigenza del territorio che occupa la Base di Guantánamo en nella condanna al blocco con il quale il Governo statunitense cerca d’isolare il paese e di distruggere la Rivoluzione Cubana (APPLAUSI).

 

Apprezziamo nel suo profondo senso e nella sua ripercussione universale la denuncia che ha appena fatto il Movimento all’Avana contro gli atti di ostilità, le sollecitazioni e le minacce degli Stati Uniti verso Cuba, giudicati come una flagrante violazione della Carta delle Nazioni Unite e dei principi del diritto internazionale, come una minaccia alla pace mondiale. Ancora una volta rispondiamo ai nostri fratelli ed assicuriamo alla comunità universale che Cuba continuerà ad essere fedele ai principi della solidarietà internazionale.

 

Signor Presidente,

 

La storia ci ha insegnato che il passaggio all’indipendenza per un popolo che si affranca dal sistema coloniale o neocoloniale è, contemporaneamente, l’ultimo atto di una lunga lotta ed il primo di una nuova battaglia. Perché l’indipendenza, la sovranità e la libertà dei nostri popoli, in apparenza liberi, sono continuamente minacciati dal controllo estero delle loro risorse naturali, dall’imposizione finanziaria da organismi internazionali ufficiali e dalla precaria situazione delle loro economie che mozza la loro piena sovranità.

 

Per tale motivo, già all’inizio della loro analisi dei problema economici mondiali, i Capi di Stato o di Governo, da una parte:

 

 

"Sottolinearono solennemente, ancora una volta, l’importanza suprema di consolidare l’indipendenza politica mediante l’emancipazione economica... e reiterarono che il sistema economico internazionale esistente era contrario agli interessi basilari dei paesi in sviluppo, era profondamente ingiusto ed incompatibile con lo sviluppo dei Paesi Non Allineati ed altri paesi in sviluppo e non aiutava al debellamento dei mali economici e sociali che colpivano i suddetti paesi..."

 

 

E, dall’altra, enfatizzarono:

"La missione storica che spetta al Movimento dei Paesi Non Allineati nella lotta per l’indipendenza economica e politica di tutti i paesi in sviluppo e dei popoli; per esercitare la sovranità piena e permanente ed il controllo delle risorse naturali e di ogni tipo di attività economica; e per favorire una ristrutturazione mediante lo stabilimento di un Nuovo Ordine Economico Internazionale".

 

Per concluder con queste parole:

 

"La lotta per debellare l’ingiustizia del sistema economico internazionale esistente e stabilire il Nuovo Ordine Economico Internazionale fa parte della lotta del popolo per la liberazione politica, economica, culturale e sociale".

 

Non è necessario dimostrare in questa sede fino a che punto il sistema economico internazionale esistente, è profondamente ingiusto ed incompatibile con lo sviluppo dei paesi sottosviluppati. Le cifre sono ormai assai conosciute, quindi diventano innecessarie per noi. Si discute se il numero degli essere denutriti è di solo 400 milioni oppure di 450, secondo alcuni documenti internazionali. Quattrocento milioni di uomini e di donne affamati è già un quantitativo assai accusatorio.

 

Ciò che nessuno diffida è che tutte le speranze che c’erano davanti ai paesi in via di sviluppo sono oramai fallite e cancellate alla fine di questo secondo decennio di sviluppo.

 

 

Il Direttore Generale del Consiglio della FAO riconobbe che "i progressi raggiunti sono purtroppo assai lenti in quel che riguarda gli obiettivi di sviluppo a più lungo termine contenuti nella Strategia Internazionale dello Sviluppo, la Dichiarazione ed il Programma d’Azione sullo Stabilimento del Nuovo Ordine Economico Internazionale e nella Risoluzione della Conferenza Mondiale dell’Alimentazione ed altre conferenze ulteriori". Siamo lontani di riuscire una produzione agricola ed alimentare dei paesi in sviluppo tenendo presente il modesto aumento medio annuo del 4% negli ultimi 10 anni, per risolvere alcuni dei problema più perentori della fame mondiale ed avvicinarci a livelli ancora più ridotti di consumo. Di conseguenza, le importazioni di generi alimentari dei paesi in sviluppo, che in questo momento sono un elemento aggravante delle loro bilance dei pagamento deficitarie, raggiungeranno molto presto, secondo la FAO, proporzioni tali che saranno incontrollabili. Di fronte a questo c’è la diminuzione degli impegni ufficiali d’assistenza estera all’agricoltura dei paesi in vie di sviluppo.

 

Questo panorama non può essere imbellito. A volte, in certi documenti ufficiali si riflettono gli aumenti circostanziali della produzione agricola in alcune aree del mondo sottosviluppato, oppure si sottolineano le elevazioni congiunturali dei prezzi di alcuni articoli dell’agricoltura. Tuttavia si tratta di progressi transitori e di vantaggi effimeri. Le entrate a titolo di esportazioni agricole dei paesi in sviluppo sono ancora instabili ed insufficienti nei confronti delle loro necessità d’importazione di generi alimentari, fertilizzanti ed altri materiali necessari per elevare la produzione. La produzione di generi alimentari pro capite nell’Africa durante il 1977 fu 11% inferiore di quella di 10 anni prima.

 

Sebbene nell’agricoltura si perpetua il ritardo, neppure progredisce molto il processo d’industrializzazione. E non può progredire perché per la stragrande maggioranza dei paesi sviluppati l’industrializzazione dei paesi in sviluppo è vista come una minaccia.

 

A Lima, nel 1975, la Conferenza Mondiale per l’industrializzazione ci propose a noi, i paesi in sviluppo, la meta d’arrivare all’anno 2000 apportando il 25% di tutte le manifatture prodotte nel mondo. Tuttavia, da Lima fino ad oggi, i progressi sono tanto insignificanti, che se non si accettano le misure proposte dalla VI Conferenza al Vertice e se non si attua un programma urgente di rettifiche nella politica economica della maggior parte dei paesi sviluppati, tale meta rimarrà insoddisfatta. Non siamo ancora riusciti a produrre il 9% della manifattura del mondo.

 

La nostra dipendenza si esprime, ancora una volta, nel fatto che i paesi dell’Asia, l’Africa e l’America Latina importiamo 26,1% dei prodotti manifatturati che entrano nel commercio internazionale ed esportiamo solo 6,3%.

 

Si dirà che c’è un certo processo d’espansione industriale, ma non si produce né al ritmo necessario né nelle industrie chiavi dell’economia industriale. Così è stato accennato alla Conferenza dell’Avana. La redistribuzione mondiale dell’industria, il cosiddetto nuovo spiegamento industriale, non può essere una nuova confermazione delle profonde disparità economiche dell’epoca coloniale al XIX secolo. Allora ci condannarono a produrre materie prime e prodotti agricoli buon mercato. Adesso si vuole utilizzare la manodopera abbondante ed i salari di miseria dei paesi in via di sviluppo per trasferirgli le industrie di tecnologia inferiore, di più bassa produttività e che inquinano di più l’ambiente. Quello lo ripudiamo categoricamente.

 

I paesi sviluppati ad economia di mercato assimilano oggi più del 85% della produzione manifatturiera mondiale, tra cui la produzione industriale di più alta tecnologia. Controllano anche più del 83% delle esportazioni industriali. Il 26% di tali esportazioni va verso i paesi in vie di sviluppo, i cui mercati monopolizzano. Il più grave di questa struttura dipendente è che ciò che importiamo, cioè, non solo i beni di capitale ma anche gli articoli di consumo, è elaborato secondo le esigenze, i bisogni e la tecnologia dei paesi di maggior sviluppo industriale e dedii modelli della società di consumo, che in questo modo s’inserisce per i gli spiragli del nostro commercio, infetta le nostre società aggiungendo così un nuovo elemento alla già permanente crisi strutturale.

 

Come risultato di quanto sopra, secondo costatato dai Capi di Stato o di Governo all’Avana, l’abisso che separa i paesi sviluppati dai paesi in sviluppo non solo esiste ma si è ampliato sostanzialmente. La partecipazione relativa dei paesi in sviluppo nella produzione mondiale calò notevolmente durante gli ultimi decenni, ciò che ha delle conseguenze ancora più disastrose nei fenomeni tale la malnutrizione, l’analfabetismo e l’insalubrità.

 

Alcuni vorrebbero risolvere il tragico problema dell’umanità con drastiche misure per ridurre la popolazione. Non dimenticare che la guerra e le epidemie aiutarono a ridurla in atre epoche. Pretendono ancora di più, vogliono attribuire il sottosviluppo all’esplosione demografica.

 

Però l’esplosione demografica non è la causa, anzi, è la conseguenza del sottosviluppo. Lo sviluppo agirà portando soluzioni alla povertà e al tempo stesso contribuendo, tramite l’educazione e la cultura, a che i nostri paesi raggiungano tasse di crescita razionali e adeguati.

 

In un recente rapporto della Banca Mondiale si segnala una prospettiva ancora più grave. E’ possibile —si dice— che nel 2000, 600 milioni degli abitanti di questa Terra si troveranno nella più assoluta povertà.

 

Signor Presidente, signori rappresentanti,

 

L’arretratezza agricola ed industriale, di cui non si possono ancora affrancare i paesi in vie di sviluppo è, senz’altro - come si costatò al VI Vertice - il risultato dei rapporti internazionali ingiusti e disuguali. Ma ad esso si aggiunge ora, come si dice anche nella Dichiarazione dell’Avana, la crisi prolungata dell’economia internazionale.

 

Non mi dilungherò molto in questo argomento. Adesso dobbiamo precisare che noi, i Capi di Stato o di Governo, abbiamo considerato che la crisi del sistema economico internazionale non è congiunturale ma costituisce un sintomo di uno scompiglio strutturale e di uno sbilancio inerente alla sua stessa natura; che tale sbilancio si è visto aggravato dalla rifiuto dei paesi sviluppati ad economia di mercato di controllare i loro sbilanci esteri ed i loro alti livelli d’inflazione e di disoccupazione; che l’inflazione è nata proprio nei paesi sviluppati che adesso si resistono ad applicare le sole misure che potevano eliminarla. E segnaliamo inoltre, perché è qualcosa di cui parleremo più tarde e che è anche contenuta nella Dichiarazione dell’Avana, che quella crisi è ugualmente il risultato della persistente assenza di equità nei rapporti economici internazionali, quindi risolvere tale disuguaglianza, come proponiamo, contribuirà ad attenuare ed allontanare la crisi.

 

Quali furono le impostazioni principali che i rappresentanti del Movimento dei Paesi Non Allineati furono costretti di formulare all’Avana?

 

Abbiamo condannato il persistente deviazione delle risorse umane e materiali verso una corsa agli armamento improduttiva, dilapidatrice e pericolosa per l’umanità (APPLAUSI). Ed abbiamo richiesto che parte importante delle risorse che adesso si usano in arme, soprattutto dalle principali potenze, vengano stanziate allo sviluppo economico e sociale.

 

Abbiamo fatto presente la nostra grave preoccupazione per il futile progresso nei negoziati mirati all’applicazione della Dichiarazione e del Programma d’Azione sullo stabilimento di un Nuovo Ordine Economico Internazionale. Abbiamo biasimato espressamente le tattiche dilatorie, di diversione ideologica e divisorie adottate dai suddette paesi. La sconfitta del V periodo di Sessioni dell’UNCTAD ha messo in evidenza tale situazione.

 

Abbiamo costatato che lo scambio disuguale in seno alle relazioni economiche internazionali, enunciato come caratteristica essenziale del sistema, è diventato –se questo è possibile- più disuguale. Intanto i prezzi della manifattura, i beni di capitale, i prodotti alimentari ed i servizi che importiamo dai paesi sviluppati s’incrementano continuamente, si bloccano e sono sottoposti a fluttuazioni incessanti i prodotti primari che esportiamo. Il rapporto di scambio si è peggiorato. Abbiamo sottolineato che il protezionismo, uno degli elementi aggravanti della Grande Depressione degli anni 30, è stato reinserito da alcuni paesi sviluppati. La Conferenza lamentò che nei negoziati del GATT i paesi sviluppati che ne fanno parte non hanno tenuto conto né gli interessi né le preoccupazioni dei paesi in sviluppo, soprattutto dei paesi meno sviluppati.

 

La Conferenza denunciò altresì come alcuni paesi sviluppati intensificano l’uso di sovvenzioni interne a determinati prodotti, a scapito delle produzioni che interessano i paesi in sviluppo.

 

La Conferenza deplorò le insufficienze nella portata e nel funzionamento del Sistema Generalizzato di Preferenze, e condannò le restrizioni discriminatorie della Legge sul Commercio Estero degli Stati Uniti, nonché l’atteggiamento inflessibile di alcuni paesi sviluppati, che impedirono di arrivare ad un accordo sui suddetti problemi durante il V Periodo de Sessioni dell’UNCTAD.

 

Abbiamo fatto conoscere la nostra preoccupazione a causa del deterioramento continuo della situazione monetaria internazionale. L’instabilità nei cambi delle principali monete di riserva e l’inflazione, ciò che accentua lo sbilancio della situazione economica mondiale, crea difficoltà supplementare ai paesi in sviluppo, diminuisce il valore reale delle loro entrate di esportazione e riduce le loro riserve in valute. Abbiamo sottolineato come un fattore negativo la crescita sfrenata delle risorse monetarie internazionali, soprattutto mediante l’uso di dollari svalutati dagli Stati Uniti ed altre monete e riserve. Abbiamo notato che, da una parte, la disparità nelle relazioni economiche internazionali incrementa il debito estero dei paesi in sviluppo fino ad oltre 300 miliardi di dollari e, dall’altra, gli organismo finanziari internazionali e la banca privata aumentano i loro tassi d’interesse, rendono più brevi i termini di ammortamento dei prestami asfissiando così finanziariamente i paesi in sviluppo, il che costituisce - come denunciò la Conferenza- un elemento di coercizione nei negoziati che dà loro vantaggi politici ed economici supplementari sulle spalle dei nostri paesi.

 

La Conferenza prese nota dell’impegno neocolonialista d’impedire ai paesi in sviluppo l’esercizio permanente ed effettivo della loro piena sovranità sulle risorse naturali, e riaffermò tale diritto. Ugualmente appoggiò gli sforzi dei paesi in sviluppo produttori di materia prima per ottenere prezzi giusti e rimuneratori per le loro esportazioni e migliorare in termini reali le entrate a titolo di esportazione.

 

D’altra parte, la Conferenza si centrò di più sul rafforzamento dei rapporti economici ed sul trasferimento scientifico-tecnico e tecnologico tra i paesi in vie di sviluppo. Il concetto di ciò che potremmo definire come "autosufficienza collettiva", cioè, l’appoggio reciproco e la collaborazione tra i paesi in vie di sviluppo che consentirà agli stessi, innanzitutto, di dipendere dalle loro forze collettive, trova nella Dichiarazione dell’Avana, una forza che non aveva mai avuto. Cuba, come Presidente del Movimento e paese coordinatore, svolgerà, assieme al Gruppo dei 77, tutti gli sforzi necessari per stimolare il Programma d’Azione concepito dalla Conferenza in materia di cooperazione economica.

 

Tuttavia, non concepiamo la suddetta "autosufficienza collettiva" neanche come qualcosa somigliante l’autarchia, la vediamo come un fattore delle relazioni internazionali che metterà in gioco tutte le possibilità e risorse di questa parte considerevole ed importante dell’umanità, che siamo noi, i paesi in sviluppo, per inserirla nel flusso generale delle risorse e dell’economia che dalla loro parte potranno mobilitare sia nel campo capitalista sia nei paesi socialisti.

 

 

Signor Presidente,

 

Il VI Vertice repudiò i tentativi di alcuni paesi sviluppati che intendono servirsi della questione dell’energia per dividere i paesi in sviluppo.

 

La questione dell’energia può essere esaminata solo nel suo contesto storico, tenendo conto, da una parte, come i modelli consumistici di alcuni paesi sviluppati portarono alla dilapidazione degli idrocarburi ed avvertendo, al tempo stesso, il ruolo spogliatore delle multinazionali, finora onerate dalle forniture d’energia buon mercato utilizzate irresponsabilmente. Le multinazionali sfruttano contemporaneamente sia i produttori sia i consumatori, conseguendo vantaggi straordinari ed ingiustificati, al tempo che cercano di colpare i paesi in sviluppo esportatori di petrolio della situazione attuale.

 

Gradisco ricordare che nel mio discorso inaugurale alla Conferenza, accennai la situazione angosciante dei paesi in sviluppo non produttori di petrolio, con particolare riguardo quelli meno avanzati, ed espressi la certezza che i Paesi Non Allineati produttori di petrolio avrebbero trovato formule che contribuirebbero a mitigare la situazione sfavorevole di quei paesi colpiti oramai da un’inflazione mondiale e dalla disparità dello scambio, che subiscono gravi deficit nelle loro bilance dei pagamenti ed un aumento considerevole del loro debito estero. Tuttavia ciò non scarta la responsabilità principale che spetta ai paesi sviluppati, ai loro monopoli ed alle loro multinazionali.

 

I Capi di Stato o di Governo, esaminando la questione dell’energia da questo approccio, sottolinearono che essa doveva essere oggetto di dibattiti in seno ai negoziati mondiali nelle Nazioni Unite, con la partecipazione di tutti i paesi e mettendo in relazione la questione dell’energia con tutti i problemi attinenti allo sviluppo, vale a dire, la riforma finanziaria e monetaria, il commercio mondiale e delle materia prime, in modo tale da fare un analisi complessiva degli aspetti legati allo stabilimento del nuovo ordine economico internazionale.

 

Ripassando i principali problemi che colpiscono i paesi in vie di sviluppo nell’ambito economico mondiale, era imperativo l’esame del funzionamento delle multinazionali. Furono di nuovo dichiarate inaccettabili le loro politiche e pratiche. Si segnalò che nella ricerca di vantaggi svuotano le risorse, sconvolgono l’economica e violano la sovranità dei paesi in sviluppo, nuocciono i diritti dei popoli all’autodeterminazione, interferiscono nei principi della non ingerenza negli affari degli Stati e ricorrono spesso alle bustarelle, la corruzione ed altre pratiche indesiderabili, tramite le quali intendono subordinare i paesi in sviluppo ai paesi industrializzati.

 

Visti gli scarsi progressi nella messa a punto, dalle Nazioni Unite, del Codice di Condotta disciplinante le attività delle multinazionali, la Conferenza riaffermò l’impellenza di concludere al più presto possibile tale lavoro per dotare la comunità internazionale di uno strumento giuridico che serva quantomeno a controllare e regolamentare le attività delle multinazionali, in accordo agli obiettivi dei paesi in sviluppo.

 

Nel mettere negli atti gli opprimenti aspetti negativi della situazione economica dei paesi in vie di sviluppo, il VI Vertice attirò specialmente l’attenzione verso i problemi che pesano sui paesi in sviluppo meno avanzati, cioè, che vivono nelle condizioni svantaggiose, senza litorale oppure i paesi mediterranei isolati, e chiese l’adozione di misure urgente e speciali per mitigarli.

 

Ecco, signor Presidente e signori rappresentanti, il panorama poco ottimista, e piuttosto cupo e scoraggiante, che hanno riscontrato i paesi membri del Movimento Non Allineati nella loro riunione tenutasi all’Avana.

 

Tuttavia i Paesi Non Allineati non si lasciarono trascinare dalla frustrazione o l’esasperazione, che sarebbe stato ben spiegabile. I Capi di Stato o di Governo concepirono strategie per portare avanti la loro lotta ed, al tempo stesso, reiterarono le loro domande e definirono i loro atteggiamenti.

 

Il primo obiettivo fondamentale della nostra lotta è quello di ridurre, fino al debellamento, lo scambio disuguale che prevale oggi e che fa del commercio internazionale un vettore vantaggioso per l’espoliazione supplementare delle nostre ricchezze. Oggi si scambia un’ora di lavoro contro dieci ore di lavoro dei paesi sottosviluppati.

 

I Paesi Non Allineati chiedono che venga concessa una profonda attenzione al Programma Integrativo ai Prodotti di Base, che finora si è visto maneggiato e schivato nelle cosiddette trattative "Nord-Sud". Ugualmente chiedono che il Fondo Comune, concepito quale strumento di stabilizzazione per il raggiungimento di una permanente corrispondenza tra i prezzi dei loro prodotti e delle importazioni, e che appena ha potuto cominciare ad integrarsi, riceva una vera spinta. Per i Paesi Non Allineati la suddetta corrispondenza tra i prezzi dei prodotti esportati ed i prezzi delle attrezzature basilari, prodotti industriali e materia prime e tecnologiche importati dai paesi sviluppati, deve essere il fulcro essenziale delle prossime trattative economiche.

 

I paesi in vie di sviluppo chiedono che i paesi che hanno cagionato ed incoraggiato l’inflazione con la loro politica, adottino le misure necessarie per controllarla, cessando così l’aggravamento dei risultati dello scambio ingiusto.

 

I paesi in vie di sviluppo chiedono — e continueranno la lotta per ottenerlo— che gli articoli industriali delle loro nascenti economie abbiano acceso ai mercati dei paesi sviluppati; che venga eliminato il viziato protezionismo reintrodotto nell’economia internazionale e che minaccia con portarci di nuovo ad una guerra economica nefasta; che si applichino in modo generale e senza finzione ingannose le Preferenze Doganali Generalizzate e non Reciproche, per favorire lo svolgimento delle loro nuove industrie, senza che vengano schiacciate nel mercato mondiale dalle risorse tecnologiche superiori delle economie sviluppate.

 

I Paesi Non Allineati sono dell’opinione che le trattative in corso sul Diritto del Mare, che sono sul punto di culminare, non possono servire –come aspirano alcuni paesi sviluppati- a ratificare lo sbilancio nelle risorse marittime, anzi, devono essere il vettore per sottolineare l’arroganza e la decisione imperialistici di alcuni paesi che, mettendo le loro possibilità tecnologiche al di sopra dello spirito di comprensione e d’intesa richiesto dai paesi in sviluppo, minacciano con intervenire unilateralmente mediante operazioni miniere nei fondali marittimi.

 

Il debito dei paesi in vie di sviluppo è pari a 335 miliardi di dollari. Si calcola che il pagamento complessivo, a titolo di servizi, del debito estero ammonta ad oltre 40 miliardi annuali, ciò che rappresenta più del 20% delle esportazioni annue. D’altra parte, l’entrata pro capita media dei paesi sviluppati è ormai quattordici volte superiore di quella dei paesi sottosviluppati. Tale situazione diventa già insostenibile.

 

I paesi in vie di sviluppo hanno bisogno di nuovi sistemi di finanziamento per accedere alle risorse finanziarie necessarie allo sviluppo ininterrotto ed indipendente delle loro economie. Tali finanziamenti devono essere a lungo termine ed a basso tasso d’interesse. L’uso delle suddette risorse finanziarie deve essere a disposizione dei paesi in sviluppo perché essi possano stabilire nelle loro economie un sistema di priorità consono ai loro piani di sviluppo industriale evitando così che tali fondi finanziari vengano assorbiti, come capita oggi, dalle multinazionali, che traggono anche vantaggio dall’ipotetico contributo finanziario allo sviluppo allo scopo di accrescere la deformazione delle loro economie ed ottenere dallo sfruttamento delle risorse dei paesi il massimo profitto.

 

I paesi in vie di sviluppo e, nel loro nome, il Movimento dei Paesi Non Allineati, chiedono che una parte importante delle immense risorse che l’umanità spreca oggi nella corsa agli armamenti sia destinata allo sviluppo, ciò che contribuirà, al tempo stesso, ad allontanare il pericolo della guerra ed a favorire il miglioramento della situazione internazionale.

 

I Paesi Non Allineati, interpretando gli atteggiamenti di tutti i paesi in vie di sviluppo, chiedono un nuovo sistema monetario internazionale che rallenti le fluttuazioni disastrose che soffrono le monete che primeggiano nell’economia internazionale, con particolare riguardo, il dollaro americano. Il disordine finanziario colpisce inoltre i paesi in vie di sviluppo, i quali aspirano che nella concezione del nuovo sistema monetario mondiale, loro abbiano voce e decisione come rappresentanti del maggior numero di paesi della comunità internazionale e di oltre 1,5 miliardi di uomini e donne.

 

Insomma, signor Presidente e signori rappresentanti,

 

Lo scambio ingiusto, rovina i nostri popoli. E deve cessare!

 

L’inflazione che ci si esporta, rovina i nostri popoli. E deve cessare!

 

Il protezionismo, rovina i nostri popoli. E deve cessare!

 

Lo sbilancio in merito allo sfruttamento delle risorse marittime, è abusivo. E deve essere annullato!

 

Le risorse finanziarie che ricevono i paesi in sviluppo, sono insufficienti. E devono essere aumentate!

 

Le spese in armi, sono irrazionali. ¡Devono cessare ed i fondi devono essere stanziati al finanziamento dello sviluppo!

 

Il sistema monetario internazionale che predilige attualmente è in fallimento. E deve essere sostituito!

 

I debiti dei paesi meno sviluppati ed in situazione svantaggiosa, sono insostenibili e non hanno soluzione. E devono essere cancellati (APPLAUSI)

 

L’indebitamento abbruma economicamente gli altri paesi in sviluppo. E deve essere alleggerito!

 

L’abisso economico che separa i paesi sviluppati da quelli che vogliono svilupparsi, non diminuisce, anzi, aumenta. E deve scomparire!

 

Ecco le domande dei paesi sottosviluppati.

 

Signor Presidente, signori rappresentanti,

 

Esaudire tali domande, di cui alcune sono state avanzate regolarmente dai paesi in vie di sviluppo nei Foro internazionali, tramite il Gruppo dei 77 e del Movimento dei Paesi Non Allineati, favorirà un cambio di rotta nella situazione economica internazionale, che avrebbe messo a disposizione dei paesi in vie di sviluppo le condizioni istituzionali per organizzare i programmi che gli avrebbero collocati definitivamente sulla via dello sviluppo.

 

Nonostante le suddette misure fossero attuate, rettificandosi gli errori e vizi dell’attuale sistema di relazioni internazionali, ai paesi sottosviluppati avrebbe mancato comunque un elemento decisivo: il finanziamento estero.

 

Tutti gli sforzi interni, tutti i sacrifici che fanno e sono disposti di fare i popoli dei paesi in vie di sviluppo, tutte le opportunità d’incrementare il loro potenziale economico che si sarebbe raggiunto nell’eliminare la disparità tra i prezzi d’esportazione e d’importazione e di migliorare le condizioni in cui avviene il commercio estero, non saranno, tuttavia, sufficienti. Di fronte alla situazione finanziaria reale ed attuale, necessitano inoltre delle risorse sufficienti che gli permetteranno, da una parte, pagare i loro debiti, e dall’altra intraprendere le enormi spese che a livello mondiale esige il salto allo sviluppo.

 

Anche in questo caso i numeri sono assai conosciuti, quindi non occorre ripeterli. Il VI Vertici si preoccupò del fatto che il debito dei paesi sottosviluppati non solo era insostenibile ma che aumentava ogni anno ad un ritmo sfrenato. Ed i dati appena forniti dal rapporto della Banca Mondiale, emesso durante i giorni in cui si teneva la Conferenza all’Avana, confermano che la situazione è sempre più grave. Solo nel 1978 il debito pubblico estero di 96 paesi in sviluppo aumentò all’incirca 51 miliardi di dollari. Questo ritmo aumenta il debito alle cifre astronomiche summenzionate.

 

Non possiamo, signor Presidente, contentarci con questo panorama cupo!

 

I più rinomati economisti, sia quelli occidentali che quelli che difendono le concezioni del marxismo, ammettono che la forma in cui funziona il sistema d’indebitamento internazionale dei paesi in sviluppo è interamente irrazionale e che il loro mantenimento minaccia con una veloce interruzione che metterà in pericolo tutto il precario ed instabile equilibrio economico mondiale.

 

Alcuni tentano di spiegare il sorprendente fatto economico che le istituzioni bancarie internazionali continuino a fornire fondi a paesi che sono tecnicamente in fallimento, allegando che si tratta di un contributo generoso per aiutare i paesi a sopportare le difficoltà economiche. Ma non è così. Si tratta, infatti, di un’operazione di salvataggio del proprio ordine internazionale capitalistico. Nell’ottobre 1978 la Commissione delle Comunità Europee ammetteva in modo illustrativo questo:

 

"L’equilibrio attuale dell’economia mondiale dipende in grande misura dalla continuazione del flusso di prestiti privati ai paesi in sviluppo non produttori di petrolio... in una misura senza precedenti prima del 1974, e qualsiasi intralcio a tale flusso metterà in pericolo il suddetto equilibrio".

 

Il fallimento finanziario mondiale sarebbe molto duro, innanzitutto, per i paesi sottosviluppati e per i lavoratori dei paesi capitalistici sviluppati. Esso porterebbe pregiudizio anche alle economie socialiste più stabili. Tuttavia, è poco probabile che il sistema capitalistico possa sopravvivere ad una catastrofe del genere. E sarebbe difficile che la terribile situazione economica che ne risulterà non porterà, inevitabilmente, ad una conflagrazione mondiale. Ormai si parla delle forze militari speciali per occupare i campi petroliferi e le fonti di materia prima.

 

Però siamo doverosi di preoccuparci per questo panorama cupo, soprattutto coloro che hanno una maggior ricchezza e benessere.

 

Alla fin fine, noi, i rivoluzionari, non ci spaventa molto la prospettiva di un mondo senza capitalismo (APPLAUSI).

 

Si è proposto che al posto dello spirito di confronto venga utilizzato il senso dell’indipendenza economica mondiale in grado d’abbinare le forze di tutte le economie per ottenere vantaggi comuni, tuttavia, il concetto dell’interdipendenza è accettabile soltanto quando si parte d’ammettere l’ingiustizia intrinseca e brutale dell’attuale interdipendenza. I paesi in via di sviluppo repudiano che gli si proponga come "interdipendenza" l’accettazione dell’ingiusta ed arbitraria divisione internazionale del lavoro imposta loro dal colonialismo moderno a partire dalla rivoluzione industriale inglese e approfondita successivamente dall’imperialismo.

 

Se si vuole impedire il confronto e la lotta, che sembra l’unica via aperta ai paesi in via di sviluppo —una via che offre lunghi e difficili battaglie le cui proporzioni nessuno potrebbe predire adesso—, occorre che noi tutti troviamo formule di collaborazione per risolvere i grossi problemi che, anche se colpiscono i nostri popoli, non possono risolversi senza incidere in qualche modo sui paesi più sviluppati.

 

Alcuni anni fa abbiamo detto che lo spreco irrazionale di beni materiali e la successiva dilapidazione delle risorse economiche della società capitalistica sviluppata era ormai insostenibile. Qual è stata dunque la causa della drammatica crisi energetica che stiamo vivendo? E chi deve sopportare le peggiori conseguenze se non i paesi sottosviluppati non petrolieri?

 

Tali criteri sulla necessità di porre fine allo spreco delle società di consumo sono oggi un’opinione generalizzata.

 

In un recente documento dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale, si afferma che:

 

 

"Le modalità di vita attuali, specie nei paesi industrializzati, forse dovranno conoscere un cambio radicale e doloroso".

 

Ovviamente, i paesi in via di sviluppo né possono aspettare né aspettano che le trasformazioni alle quali aspirano ed i finanziamenti che richiedono arriveranno come un dono risultante da meri analisi dei problemi economici internazionali. In questo processo, che implica contraddizioni, lotta e trattative, i paesi Non Allineati dipendono, innanzitutto, dadi lle loro decisioni e sforzi.

 

Tale convinzione emerge chiaramente dal VI Vertice. Nella parte economica della Dichiarazione Finale, i Capi di Stato o di Governo riconobbero la necessità di fare nei loro paesi i cambiamenti strutturali economici e sociali indispensabili, come sola via di debellare la vulnerabilità attuale delle loro economie e di trasformare la semplice crescita statistica in un vero sviluppo. Solo così —lo riconoscono i Capi di Stato—, i popoli sarebbero in disposizione di pagare il prezzo richiesto dal fatto di essere i protagonisti principali del processo. Come abbiamo detto quella volta: "Se il sistema è socialmente giusto, le possibilità di sopravvivenza e di sviluppo economico e sociale sono incomparabilmente maggiori".

 

La storia del mio paese ne è un esempio indiscutibile.

 

La necessità emergente e improcrastinabile di dare soluzione al sottosviluppo, ci fa riprendere, signor Presidente, il problema affrontato pochi minuti fa, e che vorrei che fosse l’ultimo presentato da me in questa XXXIV Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Parlo del finanziamento internazionale.

 

Uno dei fenomeni più gravi che si abbina all’indebitamento accelerato dei paesi in vie di sviluppo è che la maggior parte del denaro che ricevono dall’estero devono usarlo per forza per coprire le loro bilance commerciali e di conto corrente negativo e per rinnovare debiti e pagare interessi.

 

Se prendiamo l’esempio dei paesi in vie di sviluppo non esportatori di petrolio, la cui situazione accennai nella Conferenza all’Avana, solo negli ultimi sei anni hanno accumulato deficit nelle loro bilance dei pagamenti che oltrepassano i 200 miliardi di dollari.

 

Di fronte a questo, gli investimenti di cui hanno bisogno veramente i paesi in vie di sviluppo, sono enormi. E ne hanno bisogno, proprio e in primo luogo, quasi senza eccezione, nei settori e nelle produzioni a scarsa redditività, che non interessano né gli investitori né i mutuanti privati stranieri.

 

Per aumentare la produzione di generi alimentari, allo scopo di debellare la denutrizione dei 450 milioni di persone summenzionate, sarà necessario abilitare nuove risorse di terre e d’acqua. Secondo i calcoli specializzati, la superfice complessiva di terra coltivata dei paesi in sviluppo dovrebbe aumentare nei prossimi 10 anni in 76 milioni di ettari, e le terre d’irrigazione in oltre 10 milioni.

 

La riabilitazione delle opere d’irrigazione richiede dell’intervento in 45 milioni di ettari. Per tale motivo i calcoli più modesti ammettono che l’aiuto finanziario internazionale — e parliamo dell’aiuto e non del flusso totale delle risorse— deve essere, annualmente, di 8.000 o 9.000 milioni di dollari, per raggiungere l’obiettivo fissato di una crescita agricola del 3,5% al 4% nei paesi in sviluppo.

 

Esaminando l’industrializzazione, i calcoli superano assai tali parametri. La Conferenza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale, nel fissare le mete menzionate alla riunione di Lima, determinò che il finanziamento fosse al centro della politica internazionale dello sviluppo e che per l’anno 2000 lo stesso doveva raggiungere i 450 - 500 miliardi di dollari annui, di cui un terzo — cioè, 150- 160 miliardi—, dovrebbero provenire da correnti estere.

 

Ma lo sviluppo, signor Presidente e signori rappresentanti, non è soltanto agricoltura ed industrializzazione. Sviluppo è, principalmente, servire l’uomo, che deve essere il protagonista ed il fine di qualsiasi sforzo mirato allo sviluppo. Per prendere l’esempio di Cuba, segnalerò che negli ultimi cinque anni il nostro paese ha speso in materia di investimenti nell’edilizia e l’istruzione una media di circa 200 milioni di dollari annui. Gli investimenti in materia di edilizia ed attrezzature per la salute pubblica ammontano ai 40 milioni annui. E Cuba è soltanto uno dei circa 100 paesi in sviluppo ed uno dei più piccoli dal punto di vista geografico e demografico. Dunque si può stimare che i paesi in sviluppo, per superare la loro arretratezza, dovranno spendere più miliardi di dollari annui negli investimenti nel settore dei servizi educativi ed in quello della sanità.

 

Ecco il grande problema che abbiamo di fronte a noi.

 

E questo non è soltanto, signori, un problema a noi, il problema dei paesi sottosviluppati o dei paesi che hanno uno sviluppo insufficiente. Questo è un problema dell’intera comunità internazionale.

 

Spese volte è stato detto che siamo stati costretti al sottosviluppo dal colonialismo ed il neocolonialismo imperialista. Il dovere di aiutarci ad uscire dal sottosviluppo è, dunque, in primo luogo, un obbligo storico e morale di coloro che trassero vantaggio dal saccheggio delle nostre ricchezze e dallo sfruttamento dei nostri uomini e donne per decenni e secoli (APPLAUSI). Però è, al tempo stesso, un dovere dell’intera umanità, e così l’ha evienziato il VI Vertice.

 

I paesi socialisti né intervennero nel saccheggio del mondo né sono responsabili del fenomeno del sottosviluppo. Tuttavia, l’obbligo d’aiutare a superarlo, lo capiscono e lo assumono partendo dalla natura del loro sistema sociale, in cui la solidarietà internazionalista è una premessa.

 

Nello stesso modo, quando il mondo si aspettava che i paesi in sviluppo produttori di petrolio contribuissero anche al flusso universale delle risorse che dovrebbe alimentare il finanziamento estero per lo sviluppo, non lo faceva in funzione di obblighi e doveri storici che nessuno potrebbe imporre loro, ma come una speranza ed un dovere di solidarietà tra paesi sottosviluppati. I grandi paesi esportatori di petrolio devono essere consapevoli della loro responsabilità.

 

I paesi in sviluppo con maggior livello devono dare, addirittura, il loro contributo. Cuba, che non parla in questa sede in nome dei suoi interessi e che non difende un obiettivo nazionale, è disposta a contribuire nella misura delle sue forze con migliaia o decine di migliaia di tecnici: medici, educatori, ingegneri agronomi, ingegneri idraulici, ingegneri meccanici, economisti, tecnici di livello medio, operai qualificati, ecc.

 

E’ dunque arrivato il momento d’unirci per fare uscire i popoli e centinaia di milioni di uomini dall’arretratezza, la miseria, la denutrizione, la malattia e l’analfabetismo che impedisce loro d’usufruire pienamente della dignità e dell’orgoglio di chiamarsi uomini (APPLAUSI).

 

Occorre organizzare le risorse per lo sviluppo, e questo è un obbligo che spetta a noi.

 

Signor Presidente, ci sono in tanti i fondi speciali, multilaterali, pubblici e privati, il cui obiettivo è quello di contribuire ad un aspetto dello sviluppo, sia agricolo, sia industriale oppure compensare i deficit delle bilance dei pagamenti, che non è facile per me di portare alla XXXIV Assemblea i problemi economici discussi al VI Vertice né formulare una proposizione concreta per lo stabilimento di un nuovo fondo. Ma la questione del finanziamento deve essere, senz’altro, discussa profondamente e pienamente per trovare una soluzione. Oltre alle risorse che sono ormai organizzate dalle diverse istituzioni bancarie, le organizzazioni concessionarie, gli organismi internazionali e gli organi delle finanze privati, dobbiamo discutere e decidere in modo tale da cominciare il prossimo decennio per lo sviluppo con una strategia che includa il contributo supplementare di non meno 300 miliardi di dollari, ai valori reali del 1977, ripartiti in quantitativi annui non inferiori ai 25 miliardi già dai primi anni, da essere investiti nei paesi sottosviluppati (APPLAUSI). Questo aiuto deve essere fornito sotto forma di donazione e crediti agevolati a lungo termine ed con tasso minimo d’interesse.

 

E’ indispensabile mobilitare tali fondi supplementari come contributo dal mondo sviluppato e dai paesi con risorse, al mondo sottosviluppato nei prossimi 10 anni. Se volgiamo la pace, tali risorse saranno necessarie. Se non ci sono risorse per lo sviluppo non ci sarà pace. Alcuni penseranno che chiediamo molto; io penso che la cifra è ancora modesta. Secondo i dati statistici, come dissi all’inaugurazione del VI Vertice dei Paesi Non Allineati, il mondo spende ogni anno più di 300 miliari di dollari in spese militari. Con 300 miliardi di dollari si potrebbero costruire in un anno 600.000 scuole per 400 milioni di bambini; oppure 60 milioni di alloggi confortevoli per 300 milioni di persone; oppure 30.000 ospedali con 18 milioni di posti letti; oppure 20 000 fabbriche in grado di dare impiego a più di 20 milioni di impiegati; oppure abilitare per l’irrigazione 150 milioni di ettari di terra, che con un livello tecnico adeguato possono alimentare 1 miliardo di persone. Ecco ciò che dilapida l’umanità ogni anno nell’ambito militare. Si tenga presente inoltre, l’enorme quantitativo di risorse umane in piena giovinezza, risorse scientifiche, tecniche, carburante, materie prime ed altri beni. Ecco il prezzo favoloso da pagare perché non c’è un vero clima di fiducia e di pace nel mondo.

 

Solo gli Stati Uniti spenderanno sei volte di più la summenzionata cifra in attività militari durante il decennio 1980-1990.

 

Chiediamo per 10 anni di sviluppo meno di ciò che si spende in un anno nel ministero di Guerra e molto di meno della decima parte di ciò che si spenderà in 10 anni a dei fini militari.

 

Per alcuni può sembrare irrazionale la richiesta: ciò che è veramente irrazionale è la pazzia del mondo della nostra epoca ed i rischi che pesano sull’umanità.

 

L’enorme responsabilità d’studiare, organizzare e distribuire tale somma di risorse deve spettare interamente all’organizzazione delle Nazioni Unite. La gestione di tali fondi compete alla comunità internazionale, in condizioni di assoluta uguaglianza per i singoli paesi, siano contribuenti od onerati, senza condizionamento politico e senza che l’ammontare delle donazioni abbia a che fare con il poter di voto per decidere l’opportunità dei prestami e la destinazione dei fondi.

 

Sebbene il flusso delle risorse deve essere valutato in termini finanziari, non si deve limitare soltanto a questo. Possono farne parte anche attrezzature, fertilizzanti, materia prime, carburante ed interi impianti, valutati nei termini del commercio internazionale. Inoltre l’assistenza del personale tecnico e la formazione di tecnici deve essere contabilizzata come un contributo. Siamo sicuri, egregio signor Presidente e signori rappresentanti, che se il Segretario Generale delle Nazioni Unite —assistito dal Presidente dell’Assemblea, con tutto il prestigio ed il peso che ha quest’organizzazione, appoggiata, inoltre, dall’inizio, dall’influenza che i paesi in vie di sviluppo, e soprattutto, il Gruppo dei 77, l’avrebbero prestato a quest’iniziativa—, convocherà i diversi fattori summenzionati per avviare le discussioni dove non ci sarebbe posto per il cosiddetto antagonismo Nord-Sud né per il cosiddetto antagonismo Est-Ovest, ma che ci confluiranno tutte le forze come un dovere comune e con una speranza comune, quest’idea che sottoponiamo adesso all’Assemblea Generale potrebbe vedersi coronata dal successo.

 

Perché non si tratta di un progetto di cui trarranno vantaggio soltanto i paesi in vie di sviluppo, ma anche tutte le nazioni.

 

A noi, i rivoluzionari, il confronto non ci spaventa. Abbiamo fiducia nella storia e nei popoli. Ma come portavoce ed interpreti del sentimento di 95 paesi, abbiamo la responsabilità di lottare a favore della collaborazione tra i popoli. E tale collaborazione, se si fa su basi nuove e giuste, sarà vantaggiosa a tutti i paesi che fanno parte oggi della comunità internazionale. E sarà vantaggiosa soprattutto alla pace mondiale.

 

Lo sviluppo può essere, a breve termine, un dovere che necessiterà di apparenti sacrifici e perfino donazioni che sembrerebbero irrecuperabili. Ma il vasto mondo che vive oggi l’arretratezza, sprovvisto del potere d’acquisto, limitato al massimo della capacità di consumere, introdurrà al suo sviluppo un torrente di centinaia di milioni di consumatori e produttori, l’unico in grado di riabilitare l’economia internazionale, includendo quella dei paesi sviluppati che cagionano e soffrono oggi la crisi economica.

 

La storia del commercio internazionale ha dimostrato che lo sviluppo è il fattore più dinamico del commercio mondiale. La maggior parte del commercio attuale si fa tra i paesi industrializzati. Possiamo assicurare che più si estenderà l’industrializzazione ed il progresso nel mondo, più si estenderà anche lo scambio commerciale, proficuo a tutti.

 

Per tale motivo chiediamo nel nome dei paesi in vie di sviluppo e ci pronunciamo a favore della causa dei nostri paesi. Ma non è un dono ciò che chiediamo. Se non troviamo le soluzioni giuste, noi tutti saremmo vittime della catastrofe.

 

Signor Presidente, egregi rappresentanti,

 

Si parla spesso dei diritti dell’uomo, ma bisogna parlare anche dei diritti dell’umanità.

 

Perché alcuni popoli devono camminare scalzi perché altri si spostino in lussuose vetture? Perché alcuni devono vivere 35 anni perché altri vivano 70? Perché alcuni devono essere miseramente poveri perché altri siano eccessivamente ricchi?

 

Parlo a nome dei bambini che nel mondo non hanno un pezzo di pane (APPLAUSI); parlo a nome dei malati che non hanno farmaci; parlo a nome di coloro ai quali gli è stato rifiutato il diritto alla vita ed alla dignità umana. Alcuni paesi hanno il mare, altri non; alcuni hanno risorse energetiche, altri non; alcuni hanno terre abbondanti per produrre generi alimentari, altri non; alcuni hanno tante macchine e fabbriche che non si può neppure respirare l’aria delle loro atmosfere avvelenate (APPLAUSI), altri hanno soltanto i loro macilenti bracci per guadagnarsi il pane.

 

Alcuni paesi hanno, infine, abbondanti risorse, altri non hanno niente. Qual è il loro destino? Morire dalla fame? Essere eternamente poveri? A cosa serve allora la civiltà? A cosa serve la coscienza dell’uomo? A cosa servono le Nazioni Unite? (APPLAUSI) A cosa serve il mondo? Non si può parlare di pace in nome delle decine di milioni di essere umani che muoiono ogni anno a causa della fame o delle malattie curabili nel mondo. Non si può parlare di pace in nome dei 900 milioni di analfabeta.

 

Lo sfruttamento dei paesi poveri dai paesi ricchi deve cessare!

 

So che in molti paesi poveri ci sono anche sfruttatori e sfruttati.

 

Mi rivolgo alle nazioni ricche perché diano il loro contributo. Mi rivolgo ai paesi poveri perché facciano la distribuzione.

 

Basta già di parole! Occorrono fatti! (APPLAUSI) Basta già di astrazioni, occorrono azioni concrete! Basta già di parlare di un nuovo ordine economico internazionale speculativo che nessuno capisce (RISATE e APPLAUSI); occorre parlare di un ordine reale ed obiettivo che sia capito da tutti!

 

Non sono venuto a parlare quale profeta della rivoluzione; non sono venuto a chiedere od a desiderare che il mondo si metta a soqquadro violentemente. Siamo venuti a parlare di pace e di collaborazione tra i popoli, e siamo venuti ad avvertire che se non si riesce a risolvere pacificamente e saggiamente le ingiustizie e le disparità attuali, il futuro sarà apocalittico (APPLAUSI).

 

Il rumore delle armi, del linguaggio minacciante, della prepotenza nell’arena internazionale deve cessare. Basta già dell’illusione che i problema del mondo possono risolversi con arme nucleari. Le bombe potranno uccidere gli affamati, i malati, gli ignoranti, ma non possono uccidere la fame, le malattie, l’ignoranza. Non possono neppure uccidere il giusto ribellismo dei popoli e nell’olocausto moriranno anche i ricchi, che sono quelli che hanno più da perdere in questo mondo (APPLAUSI).

 

Diciamo addio alle armi ed occupiamoci civilmente dei problemi più opprimenti della nostra era. Ecco la responsabilità ed il dovere più sacro di tutti i capi di stato del mondo. Ecco la premessa indispensabile della sopravvivenza dell’uomo.

 

Tante grazie!

 

(VERSIONI STENOGRAFICHE – CONSIGLIO DI STATO)

 


 

(VERSIONES TAQUIGRAFICAS - CONSEJO DE ESTADO)