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Medici cubani ad Haiti: una scintilla di luce tra le ombre

Date: 

21/10/2016

Source: 

Prensa Latina

Author: 

In uno scenario in cui le guerre coloniali con i loro orrori trascorrono come una storia quotidiana e nessuno si ferma ad immaginare il significato di questi nuovi genocidi del XXI secolo per i milioni di sopravvissuti che lo hanno perso tutto, sembra impossibile che ci sia uno sguardo rivolto verso Haiti.
 
“Nessuno è Haiti”, dice una vignetta che ha pubblicato il caricaturista Miguel Villalba Sanchez (Elchicotriste”) nel sito Cartoon Movement.
 
Villalba Sanchez denuncia: un’altra volta 800 morti in Haiti, “però nessuno utilizza foto nei profili di Facebook per commemorarli, né slogan per le vittime dell’uragano Mathew”.
 
Il mondo non rivolge il suo sguardo verso questo paese, il più povero in America Latina e nei Caraibi ed uno tra i più poveri del mondo. Non esiste un “Io sono Haiti”, come quello “Io sono Charlie” che è andato per il mondo, come una moda in più, facendo riferimento all’attentato contro il settimanale francese Charlie Hebdo.
 
Diranno che in questo caso si tratta di un uragano e non di terrorismo. Però, non è terrorismo tutto ciò che ha vissuto il popolo haitiano nella sua storia? Non è terrorismo il colonialismo brutale? Non è stata terrorismo la schiavitù, le barche di schiavi attraversando i mari con “la merce” umana, quegli uomini cacciati nelle giungle dove vivevano immensamente liberi?
 
Colonialismi, invasioni, dittature. Terrore ed ancora più terrore. Il popolo di Haiti è resuscitato tante volte. L’ipocrisia del mondo è illimitata.
 
“Nessuno è Haiti”. Dopo il terremoto del 2010, che ha lasciato più di 200mila morti e due milioni senza case, per chiamare in alcun modo le migliaia di abitazioni precarie, è l’uragano Mathew, che il 4 ottobre scorso ha devastato e distrutto con il suo passaggio ed ha messo di nuovo davanti ai nostri occhi la tragedia del popolo haitiano, però soltanto come un fulmine, un flash, cioè una notizia che non ha importanza.
 
Circa 200mila haitiani sono rimasti per strada, quando non  si è ancora risolta la tragedia del 2010, mentre gli Stati Uniti  mantengono dei fondi congelati, fondi che sono del popolo haitiano, che continua ad aspettare che un giorno la  giustizia venga fatta.
 
Dicono che le inondazioni trascinavano tutto con il loro passaggio, non hanno lasciato nulla in piedi. Si sono perse le coltivazioni, hanno perso il bestiame e la fame urla a pochi chilometri di mare dagli Stati Uniti, la maggiore potenza del mondo, che, come Francia ed altri paesi europei, sono stati i boia di un popolo, la cui storia ha degli splendori e delle tragedie che scuotono l’anima.
 
L’uragano in Haiti è durato tre giorni, il peggiore negli ultimi 50 anni. Cercando più informazioni su questa incredibile tragedia che reclama ogni giorno il nostro aiuto, ricevo un video che da Haiti, via Messico, mi manda un amico, cameraman esordiente, che riconosce che a volte le lacrime gli impediscono di vedere dietro la lente della cinepresa.
 
Vedo che la distruzione è simile a quella del terremoto ed ha colpito luoghi quasi inaccessibili. Secondo le Nazioni Unite, più di un milione di persone sono state colpite dalla tormenta e almeno un terzo di loro avrebbe bisogno di aiuti umanitari. Ci sono anche centinaia di haitiani feriti.
 
In mezzo a questo disastro, vedo come se fossero “inviati dal cielo” i medici cubani, arrivando nei luoghi remoti con enormi difficoltà. Vedo i volti di disperata speranza con cui gli abitanti li ricevono.
 
Sono lì. È la missione Henry Reeve, che continua a lavorare senza riposo, come l’hanno fatto da tempo le missioni che hanno aiutato a salvare migliaia di vite dopo il terremoto del 2010 e specialmente quando il colera aveva causato altre migliaia di vittime.
 
Li vedo lavorare in condizioni incredibili, in mezzo al fango, al disastro e mi chiedo non solo chi guarda verso Haiti?, ma chi guarda queste donne e uomini che stanno lavorando lì senza tempo, senza orario, in silenzio, fuori dal mondo, dove ogni giorno ci sono più uomini-lupi che si mangiano i loro fratelli.
 
Questa solidarietà, che arriva da Cuba, non sarà vista alla televisione. Tende-ospedali, come durante la guerra, si alzano dove è possibile. Sono centinaia, migliaia di vittime ed il colera aggredisce un’altra volta.
 
Il lavoro della missione cubana è eroico. Sono degli eroi ignorati dal mondo della banalizzazione e dell’individualismo, però armati e riconosciuti da un popolo che si fida solo di loro.
 
Questi medici, questi infermieri e degli altri professionisti della sanità cubana, non sono lì per un qualsiasi interesse meschino, non stanno cercando di rubare territori, né di saccheggiare il poco che rimane di risorse naturali, né tentano di distruggere la memoria dei tempi di gioia della prima rivoluzione nera e della prima indipendenza in America Latina.
 
Tempi il cui splendore irradia ancora e vive nella memoria sotterrata di questo popolo, che può ancora cantare con la sua propria voce in mezzo alla desolazione.
 
La missione medica di Cuba in Haiti è una scintilla di luce tra tante ombre, in un paese che continua a chiedersi come lo fa il poeta haitiano Jacques Viau: “ Che sarà di noi dopo questa lunga traversata? Poco importa se il marmo o la pietra immortaleranno il nostro cuore di creta umida”.