Le mura della Moncada
![Fotocomposizione: *Carlos Michel Perdomo Fotocomposizione: *Carlos Michel Perdomo](http://www.fidelcastro.cu/sites/default/files/styles/prop-ancho/public/imagenes/articulos/f0029057.jpg?itok=UALwkMn-)
Data:
Fonte:
Autore:
Tra le vene di una città escono i giovani martiani. Al cadere della notte le luci delle auto inghiottono la strada; di tanto in tanto una fermata per respirare l’aria di un paese. Ora non si tratta d’essere o non essere, ma dove sarà la cosa; la domanda li perseguita come un tafano di città in città; alcuni vengono con le scarpe a due toni e i soli pantaloni eleganti, la guayabera bianca; altri lasciano alla famiglia un brevissimo messaggio d’arrivederci o un addio appeso alla finestra come la luce tremolante di una candela.
Già il viaggio attraversa le terre orientali; alla fine Santiago, il carnevale, la Granjita Siboney. Nel mezzo di una festa un’altra volta la possibilità del sacrificio per la felicità di tutti.
In una piccolissima sala i valorosi, più grandi dei loro fucili, si vedono i volto, tutti insieme, per la prima volta. Senza tempo per dormire due donne danno colpetti sulle spalle e distribuiscono le uniformi.
Dopo le parole di Fidel e l’inno di Perucho.
È domenica 26 di luglio del 1953, Giorno della Santa Ana e avviene il dramma di una storia: l’assalto la dispersione, il sangue dei compagni per strade, che non hanno dormito. Alcuni tra le montagne, altri all’entrata di una boscaglia sconosciuta, e altri sfidando le barriere di guardia all’entrata di ogni città dissimulano l’odore della polvere che esce dai loro pori.
Forse hanno paura. È che non sono Achille, l’eroe leggendario con un solo punto mortale nel tallone, ma Ettore alle porte di Troia e fa male morire con una così piccola vita nei polmoni e lasciare una canzone senza nome nella mani della fidanzata o nei sogni di una madre.
Ma vincono la paura e l’odio degli sciacalli. Fidel prigioniero, eretto, guarda quelli che sono sopravvissuti e pone dove nessuno lo veda il dolore per quelli che mancano: gli occhi di Abel, gli occhiali, i feriti assassinati, il corpo mutilato di Boris Luis, il poeta Raúl Gómez García che già non c’è più e continua vivo al di sopra del verso, del fumo e della mitragliatrice.
All’ora del processo, Fidel invoca l’Apostolo, Martí si muove per la sala come un angelo con la spada di fuoco e persino i nemici provano il raro orgoglio d’essere cubani.
Una lingua, come uno scudiscio nel volto del Generale percorre la sala, passa per le pagine che hanno rubato la dignità umana e reclama: terra per contadini, salute per i malati, scuole per i bambini, case pulite per i cittadini tanto mortali come l’albero, libertà per il diritto all’essenziale culto di amare dei piedi scalzi
Non è il giudice che dà colpi di martello: sono quelle poderose parole: «Condannatemi, non importa, la storia mi assolverà!»